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La Grande Guerra
La prima guerra mondiale è stata una delle guerre più cruente che l'umanità possa ricordare e da quando il 23 maggio 1915 l'Italia dichiarò guerra all'Austria-Ungheria, si venne a creare il cosiddetto fronte italo-austriaco che copriva ben 600 kilometri dall'Ortles all'Adriatico.
Ben due terzi di questo fronte era dislocato proprio nell'estremo nord-est del Friuli, tra Italia, Austria e Slovenia, arrivando fino al Carso nei pressi di Monfalcone.
Furono circa 5 milioni gli italiani che combatterono questa guerra, definita di posizione, vivendo a stretto contatto con altri soldati all'interno delle famigerate trincee che furono le tristi protagoniste di quegli anni. Luoghi dove i soldati dovettero soffrire per mesi e anni le paure di una morte mai certa ma sempre in agguato in cui le condizioni di vita erano al limite della sopportazione umana: cadaveri, topi ed epidemie erano i “compagni” quotidiani di questi uomini, tormentati anche dalle condizioni climatiche impietose soprattutto d'inverno.
Ma cos'erano queste trincee e cosa significava viverci dentro con la consapevolezza che prima o poi sarebbe arrivato un assalto nemico, un attacco di artiglieria o dei temuti gas venefici ?
Uno dei modi per farsi un'idea di cosa volesse dire vivere in quelle condizioni è andare direttamente nei luoghi delle grandi battaglie e vedere con i propri occhi quanto è rimasto conservato di quel periodo esplorando fortificazioni, chiese, cimiteri e trincee che nonostante il trascorrere del tempo sono rimaste praticamente intatte fino ad oggi a testimonianza di un conflitto che ci avrebbe segnato per sempre fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Un percorso quindi che segue grossomodo il fiume Isonzo, mostrando tutti i luoghi dove italiani e austriaci si fronteggiarono in prima linea anche a poche decine di metri di distanza gli uni dagli altri all'interno delle proprie trincee.
Da Plezzo, famosa per il barbaro uso dei gas tossici da parte degli Imperi Centrali a Caporetto, passando per il Monte Nero (Krn), la catena del Kolovrat e proseguendo verso sud tra Tolmino e Gorizia arrivando fino alle zone carsiche di Monfalcone, si può scoprire un mondo denso di storia dove audaci assalti e cruenti scontri culminarono con la famosa rotta di Caporetto a pochissimi kilomentri dall'attuale confine italiano.
Il Monte Nero, famoso per la presa da parte degli alpini del battaglione Exiles nella notte tra il 15 e il 16 giugno 1915, è il monte più alto del sistema tra Plezzo, Tolmino e Caporetto.
Appena conquistato sul versante nord furono scavate diverse gallerie per dare spazio ai pezzi d'artiglieria che avrebbero bombardato la vicina Batognica (Monte Rosso) difesa dagli austriaci.
Mrzli Vrh :di elevazione non eccezionale (1359 metri), ma estremamente scosceso ed inciso da profondi burroni, il Mrzli Vrh si pone al centro tra lo Sleme ed il Vodil formando una lunga, ripida dorsale sovrastante la Val Tolminka, all'epoca la principale via di rifornimento austro ungarica del settore. li suo possesso avrebbe garantito agli italiani due vantaggi: eliminare la logistica di supporto al fronte in quota e scendere alle spalle della piana di Tolmin vanificando la funzione di sbarramento dei due capisaldi di Mengore (Santa Maria) e del Selski Vrh (Santa Lucia) che formavano una testa di ponte posta a chiusura della valle dell'Idrijca e dell'ipotetica via di penetrazione verso Lubiana.
In poche righe la corrispondente di guerra viennese Alice Schalek descrive con efficacia la fama inquietante che in poco più di un anno di guerra si era conquistata quella gobba spelacchiata a picco sull'Isonzo.
" .. E' addirittura peggio che sul Monte San Michele, perché là la linea del fuoco non lo sovrasta. Ed è peggio che sul Podgora, perché questo monte così tormentato da quattordici mesi è alto solo duecento metri. E' peggio che nella zona di Plava - Zagora, perché là la linea non è così terribilmente lunga. Di questi quattro spaventosi punti del fronte isontino, il Mrzli Vrh è, probabilmente, il più orrendo - un triste primato del quale quelli che sono sul monte incriminato farebbero volentieri a meno...".
Mrzli, Merzli, Mrzlwrick, Smerli, nome storpiato nelle cronache, evocato quasi come una maledizione, divenne sinonimo di posizione impossibile, tanto da gettare nello sconforto anche ufficiali esperti, come un capitano della brigata Salerno che, prima di far ritorno in linea perde il controllo e di fronte ai suoi uomini:
"... urla ad un tratto, rosso e congestionato come un forsennato: non voglio esserci sullo Smerli, non ho voglia di morire senza scopo senza ottener nulla; perché lo Smerli non si prende: son sei mesi che siamo a battere e battere su questo chiodo di ferro e di morte. Più in là non si va: la vetta non si piglia."
(testo preso dal libro: "Da Tolmino a Caporetto lungo i percorsi della grande guerra tra Italia e Slovenia" di Marco Mantini)
Plezzo (Bovec), pochi kilometri a nord di Caporetto, è tristemente nota per essere stata testimone di una tra le prime battaglie dove si è face uso di gas velenosi. Gli austriaci nell'ottobre del 1917 spararono i loro proiettili nelle conche dove persero la vita circa 800 soldati italiani, morendo come colpiti da un pugno invisibile. Quest'attacco fu l'inizio di una serie di offensive che getteranno le basi per la famigerata rotta di Caporetto che sarebbe avvenuta lo stesso mese qualche giorno più avanti.
Caporetto: Il 24 ottobre del 1917 infatti, alle 02:30 i cannoni austro-tedeschi iniziarono a riversare nella valle dell'Isonzo un inferno di fuoco e gas che nel giro di poche ore causò un cedimento nell'ala destra della 2° armata italiana. Successivamente circa un milione di uomini, praticamente tutto il fronte orientale, cominciò a indietreggiare prima verso il Torre, poi fino al Tagliamento ed infine verso il Livenza. La 3° armata rimasta sul Carso seguì l'esempio il giorno dopo per evitare di rimanere accerchiata dall'impeto austro-ungarico e raggiunse il Piave il 6 novembre.
Il 7 novembre il Re destituiva Luigi Cadorna da Comandante in Capo dell'Esercito Italiano; al suo posto veniva nominato il generale Armando Diaz.
Il 10 novembre terminava la ritirata italiana: era costata 10.000 morti, 30.000 feriti, 300.000 prigionieri, 350.000 sbandati e disertori; erano stati persi 3.152 pezzi d'artiglieria, 1.732 bombarde, 3.000 mitragliatrici.
La sconfitta di Caporetto segnò, indubbiamente, una svolta nel modo in cui l'esercito e la pubblica opinione vivevano lo stato di guerra e nella stessa condotta del conflitto, che per la prima volta assumeva un carattere spiccatamente difensivo.
Certamente, la volontà di resistere a tutti i costi contro l'invasore non fu né così immediata né così generalizzata come la propaganda mitizzante dell'immediato dopoguerra volle far credere: fra i militari si alternarono ancora per parecchi mesi la speranza e lo scoraggiamento, e ancora fino alla fine del 1917 non mancarono fenomeni diffusi di disfattismo da parte di quanti speravano in una sconfitta che ponesse termine comunque alla guerra.